La differenza tra gli alimenti ed il mantenimento

Nel linguaggio comune, in caso di separazione o di divorzio si è soliti parlare, indistintamente, di “mantenimento” o di “alimenti” come se fossero la stessa cosa: sebbene si tratti, in entrambi i casi, di forme di assistenza economica che il coniuge economicamente più agiato versa nei confronti del coniuge più svantaggiato, molteplici sono le differenze tra i due istituti.

In particolare, gli alimenti sono corrisposti per far fronte a difficoltà economiche riguardanti il soddisfacimento dei bisogni di base dell’ex coniuge ma anche, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 76/2016, dell’ex convivente, il quale non è in grado di farvi fronte autonomamente; l’assegno di mantenimento, invece, ha lo scopo di garantire a chi lo riceve le stesse condizioni economiche – o più correttamente, lo stesso tenore di vita – che aveva nel corso del matrimonio, almeno per quanto riguarda il periodo di separazione.

Con riguardo ai summenzionati istituti, sono necessarie, però, delle ulteriori precisazioni:

Alimenti

È l’obbligo che incombe a carico di determinate categorie di parenti ed affini– ed, in particolare modo, dell’ex coniuge e dell’ex convivente – di badare alle esigenze necessarie dei propri famigliari che non sono in grado di provvedervi, versando in uno stato di assoluta deficienza dei mezzi di sostentamento.

Si tratta di un istituto civilistico che garantisce una forma di assistenza economica che prevede, in caso di separazione, a carico di un coniuge nei confronti dell’altro (in condizioni di oggettiva difficoltà economica). Quest’ultimo, in particolare, non deve essere in grado di provvedere autonomamente al proprio sostentamento economico, non disponendo di redditi propri, oppure non essendo in grado di procurarseli.

Il coniuge economicamente più agiato, quindi, ha il dovere giuridico, così come previsto dall’art. 433 cod. civ., di assicurare all’altro coniuge – che, come detto, versa in stato di bisogno – un importo economico sufficiente per provvedere ai bisogni primari di quest’ultimo.

Gli stessi doveri in capo all’ex coniuge, dal 5 giugno 2016, sono attribuiti anche all’ex convivente che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 76/2016, è stato inserito al penultimo posto dei soggetti obbligati a corrispondere tale tipologia di assegno[1].

Sono essenzialmente tre i presupposti per poter chiedere gli alimenti:

1) trovarsi in uno stato di bisogno oggettivo[2], che consiste non solo nella mancanza dei mezzi necessari per sopravvivere ed alimentarsi, ma anche, più in generale, nella insufficienza dei normali mezzi per fa fronte alle spese minime della vita quotidiana (per il vitto, per l’abitazione, per il vestiario, etc.);

2) non poter lavorare e provvedere al proprio mantenimento[3], e ciò per diverse cause, come, ad esempio, una malattia, oppure perché non si trova un lavoro adatto alle proprie condizioni, o perché si è fuori dal mercato del lavoro da troppo tempo;

3) il coniuge o il convivente a carico del quale è posto l’obbligo di pagamento, deve essere in grado di poter pagare gli alimenti, utilizzando, ad esempio, i proventi del proprio lavoro o di altre ed eventuali fonti di reddito.

Gli alimenti, nello specifico, devono essere assegnati da un Giudice nell’ambito di un regolare procedimento giudiziale ed – in ragione della loro particolare funzione assistenziale – il titolare non può liberamente disporne: i crediti alimentari non sono cedibili, non possono essere pignorati, non si prescrivono e sono irrinunciabili.

Mantenimento

Il diritto al mantenimento – normalmente, si parla di “assegno di mantenimento” – è una forma di assistenza economica che ha un contenuto molto più ampio rispetto a quello degli alimenti e va ben oltre la soddisfazione dei semplici bisogni primari. La ratio dell’istituto è quella di garantire a chi lo riceve di mantenere le stesse condizioni di vita in costanza di matrimonio[4] sia al coniuge beneficiario dell’assegno, sia ai figli nati dal rapporto di coniugio[5]; a condizione, comunque, che l’ex coniuge sia effettivamente in grado di sostenere le spese che esso comporta.

Questo diritto prescinde dallo stato di bisogno del beneficiario e spetta al coniuge che non ha avuto alcuna responsabilità nella separazione. In particolare, la richiesta di ricevere l’assegno di mantenimento può essere avanzata, in sede giudiziale, solo nel caso in cui non vi sia stato l’addebito della separazione. Ribadiamo, infatti, che il coniuge “colpevole” della separazione non ha diritto di richiedere l’assegno de quo, anche se è economicamente meno abbiente.

Qualora venga riconosciuto il mantenimento, il relativo assegno potrà essere corrisposto mensilmente oppure in una unica soluzione [sul punto confronta, L’assegno di mantenimento una tantum (senza obbligo mensile)] a seconda degli accordi delle parti o in base al provvedimento del Giudice.

In ogni caso, l’importo di quest’ultimo può essere successivamente modificato o totalmente revocato, a seguito del provvedimento del Giudice e ad istanza di parte. Per individuare i criteri in base ai quali commisurare l’entità dell’assegno di mantenimento si rinvia all’omonimo contributo, la quantificazione del contributo a titolo di alimenti/mantenimento.

Con la Sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017, la Cassazione ha, però, mutato l’orientamento consolidato: in sede di divorzio, per determinare l’assegno di mantenimento, non viene più preso in considerazione il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma altri nuovi parametri, quali l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi propri di sussistenza, l’indipendenza economica e l’autoresponsabilità economica.

[1] Secondo l’art. 433 cod. civ. sono tenuti all’obbligo di prestare gli alimenti, nell’ordine:

1) il coniuge;

2) i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi anche naturali;

3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti;

4) i generi e le nuore;

5) il suocero e la suocera;

6) il convivente di fatto;

7) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

[2] Si tratta di una vera e propria conditio sine qua non per la concessione degli alimenti: in base all’art. 438, comma 1°, cod. civ., infatti, “gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento”.

[3] Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che “Il riconoscimento del diritto agli alimenti è subordinato alla dimostrazione della sussistenza di un duplice presupposto, costituito, da un parte, dallo stato di bisogno, dall’altro, dalla impossibilità da parte dell’alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali” (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 14 febbraio 1990, n. 1099).

[4] La Corte di legittimità, con riguardo all’assegno di mantenimento, così si pronunciava: “L’assegno ha carattere esclusivamente assistenziale, atteso che la sua concessione trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante da intendersi come insufficienza dei medesimi (comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre) a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio. Detto assegno, pertanto, è diretto ad evitare il deterioramento delle condizioni economiche esistenti in costanza di matrimonio, non già ad assicurare i vantaggi derivanti dalla possibilità di partecipare agli eventuali miglioramenti della situazione economica dell’ex coniuge, successivi alla cessazione della convivenza” (cfr. Cass. Civ., Sez. I, 20 dicembre 1995, n. 13017).

[5] Il diritto al mantenimento deve essere riconosciuto non solo nei confronti del coniuge, ma anche, eventualmente, nei confronti dei figli; secondo una recente pronuncia della Suprema Corte, infatti, “In seguito alla separazione o al divorzio, la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza” (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 17 maggio 2013, n. 12076).